Operette morali
Le Operette morali sono prose di argomento filosofico, di una filosofia con un fine pratico che, come scriveva lo stesso Leopardi nello Zibaldone, ha il fine di scuotere la patria e il suo "secolo".
Alla base delle Operette morali vi è, dunque, un impegno morale e civile, quello stesso che aveva animato le Canzoni, in esse sono presenti personaggi mitici, favolosi, ma anche storici, e varia è la forma narrativa.
Pur contenendo i temi fondamentali del pessimismo leopardiano, le operette si presentano come il frutto di un momento più pacato, lontano dall'accorato rimpianto come dalla disperazione, in esse vi è il tema dell'inevitabile infelicità dell'uomo, la noia, il dolore, l'impossibilità di raggiungere il tanto desiderato piacere, tutto espresso con un tono lieve, e con profonda ironia, che nulla tolgono alla sostanza intellettuale dell'opera.
Nelle Operette il ragionamento, il pensiero filosofico dello Zibaldone sembra risolversi in favola, paradosso, in bizzarrie umoresche, in aeree invenzioni, esse appaiono come la rappresentazione dall'esterno della ricerca filosofica del poeta, un'inchiesta trasferita in personaggi del tutto remoti od insoliti: la Luna, la Morte, un Venditore di Almanacchi, un'Anima, la Natura... innanzi ai quali Leopardi si pone con un atteggiamento tra il commosso ed il divertito, esercitando di continuo la poetica del "peregrino", guardando alla sua materia sempre con lucidità, con dominio intellettuale e distacco ironico, che conferiscono all'opera un nitore classico, talvolta una certa freddezza, ma più spesso l'opera è percorsa da intense vibrazioni, come quando richiama il vagheggiamento delle illusioni giovanili o si lancia in un'appasionata requisitoria contro la crudeltà della Natura, come nel Dialogo della Natura e di un Islandese.
Lettura quindi, quella delle Operette, più difficile e profonda di quella che non appaia ad un primo assaggio; il cui significato è quasi sempre da ricavarsi nell'umore palese o sotterraneo della pagina, e non nella perfezione esteriore dello stile, sulla quale a lungo si soffermarono gli studiosi dell'Ottocento.
Dialogo della Natura e di un Islandese
Una delle operette più alte (di importanza quasi centrale nello sviluppo dell'opera) è il Dialogo della Natura e di un Islandese, soprattutto perché vi compare per la prima volta, in tutta la sua estensione, condotto sino all'estremo delle sue conclusioni, il pessimismo cosmico di Leopardi.
La Natura non è più considerata la madre benignissima degli esseri; i colpevoli non sono più gli uomini che volontariamente hanno deviato dalle leggi naturali, ma la Natura sempre ed ovunque indifferente se non ostile ad ognuno dei suoi figli, incapace di procurare loro quella felicità che è nel fine di ogni vivente, come fa notare l'Islandese nell'elencare i mali esterni a cui l'uomo non può sfuggire.
Si delinea in questo dialogo la figura di una Natura nemica, matrigna, dopo che nelle operette precedenti l'infelicità veniva attribuita all'aspirazione ad un piacere infinito e all'impossibilità di raggiungerlo (e quindi imputata all'uomo). È questa una consapevolezza che Leopardi aveva maturato nel tempo, attraverso le riflessioni dello Zibaldone, ma che in questa operetta viene chiaramente espressa; questa consapevolezza cambierà, d'ora in poi, il pensiero leopardiano: la causa dell'infelicità dell'uomo non è più da imputarsi alla sua condizione psicologica, ma alle stesse leggi fisiche che governano il cosmo. Da questo momento in poi dolore, morte, distruzione sono visti come gli strumenti indispensabili per la conservazione del mondo, in un'ottica severamente materialistico-meccanicistica.
È la sofferenza che guida il mondo e nessun essere sulla terra può sottrarsi ad essa (la scelta del protagonista, un Islandese, sta a significare che sono infelici anche coloro che sono vicini alla natura, come appunto gli Islandesi).
Tutto concorre alla grandezza del dialogo, lo scenario deserto e remoto in cui è collocato, l'immagine solenne ed impassibile della Natura, la figura quasi squallida dell'Islandese; non si conduce in questo dialogo un'inchiesta sul perché e il fine del Tutto, ma in essa si conduce la rappresentazione dall'esterno di tale inchiesta, in cui è simboleggiata la condizione assurda dell'uomo, la sua incapacità di acquietarsi, di rinunciare a rinvenire un fine dove pure nessun fine può essere rinvenuto, se tutto è da concepirsi meccanicisticamente. La rappresentaione, in una figura esemplare, del nostro assurdo chiedere, della pena che a noi deriva dal nostro intelletto, contemplata dall'esterno, con commozione certamente, ma anche con un lieve distacco, con un sorriso pietoso. Perciò la mancanza di risposta, il finale grottesco, la "mummificazione" dell'Islandese; finale che rappresenta l'unica soluzione possibile.
È la sofferenza la legge della natura e il dialogo si conclude con una domanda : a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell'universo, conservata con danno o con morte di tutte le cose che lo compongono?
È la stessa domanda che Leopardi si pone nel Canto notturno di un pastore errante dell'Asia.
L'errore è infatti nel porsi domande, l'errore è nelle pretese del ragionamento umano, nella nostra logica, come Leopardi, in riferimento esplicito a questa Operetta, annotò nello Zibaldone.
Come in tutte le Operette il problema morale non è affrontato, anche qui è solo rappresentato, in una rappresentazione arcana e favolosa, un mitologizzare altissimo attraverso cui risultano due diverse concezioni della Natura: l'entità malvagia che perseguita le sue creature, come la vede l'Islandese; e un'entità che obbedisce a leggi esterne, oggettive e che non si avvede di recare danno e dolore. Questa duplice immagine della Natura deriva dal duplice atteggiamento dell'autore: da una parte il filosofo che considera la Natura un puro meccanicismo di cui l'uomo non è che un misero ingranaggio; e il poeta che vede la Natura come una divinità malvagia, che gode nell'infliggere male all'uomo.